I FOCUS DI INDICAM – Il consumatore di lusso: ruoli, comportamenti e motivazioni dall’Antica Grecia al post-moderno.
SECONDA USCITA: L’Età Moderna
di Sara Zannelli
Le leggi suntuarie nel XVI secolo
Come seguito della prima espansione dei commerci del secolo precedente, il XVI secolo, fu caratterizzato da una maggiore articolazione sociale, che portò a sua volta una maggiore flessibilità dei confini fra ceti. Per opporsi a questo trend, la vecchia e tradizionale aristocrazia cercò di formulare delle legislazioni che escludessero dai privilegi i nuovi ricchi, i quali attraverso l’emulazione cercavano di entrare nell’antico rango sociale. Una delle basi su cui si erigeva questo impianto era l’onore, un complesso di norme e convenzioni che assicurava il mantenimento del privilegio connesso alla nobiltà; ma i costi legati alla difesa dell’alto rango non erano certo bassi e talvolta il nobile si trovava ad indebitarsi per poter sopportare le spese connesse all’onore. La rovina dei nobili si trasformava nella fortuna dei borghesi, i nuovi ricchi che si “compravano” lo status.
Oltre l’onore, esempio di questa tipologia di leggi può essere visto nella legislazione redatta a Pisa nel 1563: in questa vengono sistematizzate le classi sociali e vengono definiti i consumi legittimati per ogni classe: «Alle famiglie che abitualmente gestivano le arti e le cariche maggiori, in base a queste condizioni, erano imposti i divieti più blandi. Ad un livello intermedio, i riformatori inseriscono le famiglie che non avevano mai raggiunto il priorato, pur avendo ricoperto incarichi pubblici di prestigio. Infine, al gradino più basso, sono lasciati i contadini…»[1]. I dottori, cavalieri di qualunque ordine e religione, cortigiani, capitani e gentiluomini ai servizi del Granduca di Pisa o la prole di quest’ultimo sono esonerati da questi provvedimenti, questo non solo per la loro persona, ma anche per le loro mogli. Un altro aspetto interessante che riguarda la legislazione suntuaria del XVI riguarda le regolamentazioni nei confronti delle spese funerarie, che avevano già interessato la discussione sul lusso e sull’ostentazione di status nel Mondo Antico.
L’esempio di Pisa è uno fra i tanti: le leggi suntuarie caratterizzarono tutta l’Europa e anche se gli oggetti o i comportamenti regolamentati potevano essere differenti, l’idea che sottostava a questo complesso di leggi era sempre il medesimo: preservare il potere dell’aristocrazia dalle minacce dei nuovi borghesi attraverso il controllo dei consumi.
La frequenza di leggi che cercavano di regolamentare questi fenomeni, nell’Europa del tempo, non è sicuramente in linea con l’inefficacia che queste ebbero nel contrastare l’interscambio fra ranghi.
Non fu solo la legislazione a portare avanti questo ideale di divisione netta fra i diversi ceti: nel Catalogus glorie mundi scritto nel 1529 da Bartolomeo Cassaneo si affermava che il vestiario doveva e aveva un compito fondamentale nel portare a conoscenza l’ordine sociale. Egli stilò infatti una vera e propria lista nella quale tutto il mondo conosciuto viene ordinato secondo i principi della distinzione sociale e nella quale uno dei linguaggi più importanti di questa distinzione era sicuramente l’abito. Secondo l’autore chi sgarrava cadeva nel peccato, andando a minare la stabilità dello Stato.
La corte come palcoscenico dei consumi nel XVII e XVIII secolo
È dalla metà del XVII secolo che si registra in Europa un aumento sostanziale della domanda di beni: si parla di una vera e propria rivoluzione dei consumi, che ha caratterizzato il Vecchio e il Nuovo Continente, resa possibile da una sistematizzazione del commercio mondiale. Fanno ingresso nel mondo Europeo dei consumi beni esotici, provenienti dalle varie colonie sud-americane e africane, fra cui tabacco, caffè e tè.
Esempio di ciò si può ritrovare nella corte di Luigi XIV dove l’utilizzo del caffè incarnava un vero e proprio rituale: interessante notare che in questo caso però, ciò che rendeva unico questo rituale non era la pratica di consumo, bensì gli accessori che la rendevano possibile: “il rito del caffè” che permetteva al Re di poter sfoggiare lussuose porcellane divenne più importante della stessa bevanda. Del tutto diverso è l’uso che ne faceva invece la borghesia, la quale giustificava il consumo di caffè con gli effetti psicofisici della bevanda: nei Café la nascente élite borghese si ritrovava per poter discutere a mente lucida di affari, arte e letteratura. Inizia così a presentarsi sul mercato europeo una pratica ancora presente nella nostra contemporaneità: se una molteplicità di beni può essere messa in contatto con una moltitudine di pubblici, non sarà il bene in sé a differenziare, ma l’uso che se ne fa. Più che il prodotto, sono le pratiche di consumo a incarnare la stratificazione sociale: differente il rango, differente l’utilizzo.
Oltre all’allargamento delle reti commerciali, l’istituzione che ha influito maggiormente sulla storia dei consumi, nonostante l’unicità del modello che ha portato avanti, è sicuramente la società di corte, che ha caratterizzato l’Europa nel Sei e Settecento.
La corte può essere definita come la casa di grandi dimensioni dove il Re, la sua vasta amministrazione domestica, i suoi familiari e tutte le persone a lui legate in modo più o meno stretto, vivevano e intrattenevano qualsivoglia rapporto. Emblema di questo modello sociale fu la corte francese padroneggiata da Luigi XIV. Egli fece proprio uno stile di vita carico di lussi e sfarzi, che riguardavano ogni sfera della vita del sovrano stesso e della sua corte: tessuti pregiati, arredamenti ricercati, vestiti ornati d’oro, scuderie con cavalli e cani da caccia e rituali eno-gastronomici che ricordavano terre lontane.
Questo gioco incessante di sfarzo e consumo esagerato ha portato però, soprattutto nel Settecento, a una situazione drastica per molti aristocratici, che arrancavano per tenere il passo della corte; il tasso di debiti che alcuni di questi arrivavano a contrarre fu altissimo.
In questo modello sociale grande importanza acquisiscono la costruzione e l’arredamento degli edifici, che si fanno materializzazione della teatralità caratterizzante la società aristocratica di allora. Le case diventano degli spazi dedicati alla socialità e alla sfera pubblica, dei terreni dove i giochi di consumo si manifestano, facendosi parola di un linguaggio pubblico. È interessante notare che la maggior parte degli uomini di corte abitavano a Versailles con il Re, ma possedeva anche una dimora, definita hôtel, situata nella città di Parigi: queste case cittadine riproducono in piccolo la struttura e lo sfarzo della reggia del Re. Fu così che la concezione di vita relegata all’aristocrazia e alla Maison du Roi fece il suo ingresso nella città, andando così a mostrarsi anche alla sempre più ricca borghesia dell’epoca. È proprio qui che risiede l’importanza della vita di corte nella storia dei consumi: questa tipologia di vita agiata era ristretta a una cerchia di minime dimensioni, ma con il suo “mostrarsi in piazza” è riuscita comunque a influire sull’idea e sulla concezione del consumo prima nell’Ottocento e poi nella storia a venire.
In queste dimore la parte dedicata alla vita sociale ricopre più della metà dell’intera residenza, poiché è proprio in queste stanze che l’aristocratico può mostrare alle monde il proprio rango. L’arredamento e il fasto di queste case non seguono un gusto particolare, bensì tutto ciò che è componente della dimora deve rappresentare il rango di chi la abita. È attraverso la casa che il grandseigneurs può mostrare al mondo il suo rango e il suo ceto di appartenenza.
La società di corte ha segnato uno dei momenti di grande prosperità, soprattutto se si guarda ai consumi di lusso. Il consumo vistoso acquisisce nelle corti del Sei e Settecento una connotazione importante e del tutto peculiare: è l’apparenza che materializza il rango, è ciò che viene visto a dare forma all’insieme di caratteristiche individuali del soggetto, è il lusso che, mostrandosi, si fa artefatto di una cultura basata sulla distinzione sociale.
Le feste, i balli, gli appuntamenti quotidiani della vita a corte permettono un consumo di beni che, anche se riferibili a diverse categorie merceologiche, hanno un unico minimo comun divisore: lo sfarzo. Ed è proprio lo sfarzo ad essere il fulcro del gioco di consumi che caratterizza questa società. L’apparenza è quello che conta e il consumo si fa strumento della costruzione di un Io che è strettamente in funzione del Sé.
La polemica settecentesca
Tutto questo interesse che investì il lusso fra Sei e Settecento portò molti studiosi e filosofi a ripensare al concetto e alla sua morale. Nelle prime trattazioni in materia, essendo ancora vivo l’ideale della vita di corte ed essendo queste scritte da studiosi che si annoveravano nella borghesia dell’epoca, è chiara un’accezione negativa del lusso, che viene identificato come principale causa della frammentazione della società e dell’immobilità sociale. Se nel Seicento l’idea filosofica sul lusso lo descriveva ancora come un qualcosa di riprovevole, che andava contro gli ideali dello Stato, ai primi del Settecento, con il fallimento dell’assolutismo e una rivoluzione sociale che vede nel cambiamento e nella mobilità i suoi cardini, ritorna preponderante l’accettazione del lusso quando sinonimo della sovrapposizione fra interessi privati e benessere pubblico. Questa idea trova espressione nelle opere di Bernard de Mandeville, soprattutto in quella che gli ha dato maggiore fama, La favola delle api: o vizi privati, pubblici benefici (1728). L’autore descrive in questa opera la situazione dell’Inghilterra mercantile, proponendo un punto di vista totalmente diverso con cui guardare gli effetti del lusso sull’economia generale e sulla condizione di vita dei componenti della società. Egli, infatti, vede nel lusso un motore che fa muovere la macchina dell’economia, dando lavoro a più e più persone (anche povere), «…esso genera tutte le comodità della vita e le arti utili e belle, finendo col coincidere con la civiltà stessa»[2].
Ma la riflessione di Mandeville si sofferma anche su un altro punto che oltre ad essere rivoluzionario per l’epoca, risulta molto interessante. Egli, infatti, riprendendo gli stereotipi che investivano all’epoca il parallelismo fra la femminilità e il lusso, nei quali la donna è personificazione dei consumi vistosi e ostentativi, li ribalta, mostrando come in realtà il vizio può essere alla base della nascente società del mercato.
Le idee di Mandeville ebbero ripercussioni non solo in Inghilterra, ma soprattutto in Francia: fu nel contesto d’oltralpe, dove la maggior parte dell’industria si adoperava a soddisfare la crescente domanda di beni di lusso, che prima Melon e Colbert, poi Voltaire e Montesquieu restituirono al lusso un’accezione positiva.
Nel Dictionnaire philosophique Voltaire difende il lusso, affermando che il superfluo diventa necessario e che tutte le ammonizioni, che in passato sono state mosse contro il lusso, non sono altro che meri tentativi di far passare questo come capro espiatorio di altri problemi che minacciavano la società.
Anche le idee di Montesquieu si avvicinavano a quelle appena citate di Voltaire: egli, però, cercò di sistematizzare i vari effetti che il lusso aveva nelle diverse tipologie di governo. Se nella repubblica il lusso mina l’ideale dell’uguaglianza del popolo, nella monarchia, dove la differenziazione di ricchezza fra individui è accettata, il lusso diviene necessario a far muovere il motore dell’economia.
Tutto questo ottimismo nei confronti del lusso fu frenato bruscamente dalle teorie di Jean-Jacques Rousseau. Questo autore accusando indistintamente tutto ciò che era culturalmente costruito, affermava che l’uomo nasce come essere buono, ma viene poi schiacciato sotto i pressanti giochi di potere e gli intrecci della società. Ne risulta che anche il consumo di lusso sia visto da Rousseau come una minaccia verso la natura pacifica dell’uomo. Rousseau elogia infatti il modello etico dell’antica Sparta, dove il lusso era bandito, poiché minava l’idea del buon cittadino. Questa idea, in netta opposizione con quella di Mandeville e Montesquieu, fece insorgere una vera e propria diatriba, in cui i sostenitori del lusso come motore del mercato si contrapponevano a chi vedeva in questo uno dei difetti più grandi delle società moderne.
Ritornando alle pratiche di consumo, è però possibile trovare un trait d’union che leghi la concezione del consumo di lusso nella corte settecentesca e l’alta società del XIX secolo: la figura del dandy. Sempre alla ricerca della bellezza assoluta, dell’eleganza e del buongusto, il dandy si muove in un’ombra di raffinatezza e pacatezza fra i vari beni di lusso, cercando sempre di mantenere una sorta di equilibrio sociale di facciata. In realtà il dandy scatena una competizione in un ristretto ambito sociale (caratteristico dell’Ottocento), contestando le virtù borghesi e praticando l’ozio. È uno dei primi casi dove l’interazione sociale viene completamente mediata dai comportamenti di consumo, nei quali il dandy definisce se stesso e viene definito dalla società.
[1] DA CAPRILE M. (2008). Le leggi suntuarie a Pisa nel Cinquecento. https://www.academia.edu/22016578/Le_leggi_suntuarie_nella_Pisa_del_Cinquecento
[2] https://www.treccani.it/enciclopedia/lusso_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/
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