Greenwashing e International Conference
Nello scenario internazionale, la sostenibilità, la riciclabilità e le altre virtù ecologiche rappresentano al giorno d’oggi veri e propri driver nelle scelte di acquisto dei consumatori.
La crescente attenzione e sensibilità alle tematiche ambientali non è di certo passata inosservata alle imprese, che sempre più spesso “tingono di verde” la propria attività, lanciando prodotti “eco-friendly”, “sostenibili”, “naturali” o “riciclati” con tanto di packaging e segni distintivi in verde per l’occasione.
Ma in questi casi si tratta di campagne di green marketing o di greenwashing?
Nell’ambito della “International Conference on Greenwashing: an International perspective”, primo evento INDICAM in presenza (ma fruibile anche da remoto) dal febbraio 2020 e svoltosi a Milano, è emerso chiaramente che la linea di confine tra i due fenomeni è molto sottile.
L’evento ha affrontato il tema del greenwashing sotto una prospettiva inedita: sei avvocati esperti in diritto della pubblicità (e, con esperienza, nelle tematiche della comunicazione “verde”), provenienti rispettivamente da Cina, Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna, si sono confrontati sugli aspetti più ostici (e più avvincenti) del fenomeno in una round table moderata da un ospite di eccezione.
In particolare, ciascuno speaker ha dato una panoramica del greenwashing – ossia quella strategia di comunicazione finalizzata a costruire un’immagine di brand ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti –, analizzando la normativa applicabile e i casi più rilevanti nella rispettiva giurisdizione.
Oltre alla evidente trasversalità del fenomeno, dal quadro comparatistico è emerso un certo grado di uniformità (ovviamente, non senza differenze, e per citare la moderatrice “il diavolo sta nei dettagli”) nell’approccio delle autorità e dei legislatori nazionali al greenwashing. Ciò quantomeno sul piano Europeo, dal quale si distanzia sensibilmente la prospettiva cinese, ove le tematiche green non sono – almeno per il momento – nel mirino della Autorità e perché l’attenzione dei consumatori alle tematiche green è ancora limitata.
Del resto, la rilevanza fondamentale dei temi ambientali nella comunicazione commerciale della gran parte dei brand a livello internazionale è da tempo confermata da diverse ricerche di mercato. Ad esempio, l’indagine condotta nel marzo 2021 da IBM coinvolgendo oltre 14.000 persone di nove paesi rivela che il 54% dei consumatori preferisce i brand attenti all’ambiente, anche a costo di pagare di più.
E così, con il diffondersi a macchia d’olio del green marketing si è diffuso, però, anche il greenwashing.
Già nel 2021 la Commissione Europea – nell’ambito di un’indagine a tappeto su migliaia di siti web – ha rilevato che oltre la metà delle affermazioni ecologiche diffuse dai brand online era falsa, priva di fondamento o non adeguatamente provata; in altre parole: ingannevole.
D’altronde, i parametri di valutazione dell’ingannevolezza dei green claim dettati dalla normativa applicabile alla pubblicità ingannevole nel settore della comunicazione “verde” – e in particolare la Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori e i Codici nazionali di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, nonché le norme nazionali sulla concorrenza sleale – sono particolarmente stringenti.
Secondo gli Orientamenti della Commissione Europea del 25 maggio 2016 (attuativi della Direttiva 2005/29/CE), un’asserzione ambientale è ritenuta ingannevole non solo qualora contenga informazioni false (e sia pertanto non veritiera), ma anche quando inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se è di fatto corretta.
Di conseguenza, qualsiasi comunicazione commerciale che evochi benefici ambientali deve necessariamente essere basata su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili.
Non solo. In ambito di green marketing non sono ammesse neppure asserzioni che si basano sull’indicazione di benefici ambientali vaghi e generici.
I green claim generici – quali “rispettoso dell’ambiente”, “verde”, “amico della natura”, “ecologico”, “sostenibile”, “sicuro per l’ambiente”, “attento ai cambiamenti climatici” o “a basso impatto ambientale” – sono ingannevoli al pari dei claim falsi o non supportati da idonee prove tecnico-scientifiche, in quanto sono ritenuti in grado di ingannare il consumatore medio e indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
In sostanza, ogni claim ambientale deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono.
La necessità di presentare i green claim in modo chiaro, veritiero, accurato, e verificabile sotto un profilo tecnico-scientifico, e di evitare messaggi vaghi e generici (principi, questi, applicabili in modo trasversale a livello internazionale) impone agli inserzionisti di disporre e mettere a disposizione del pubblico precise prove a sostegno delle loro dichiarazioni ambientali.
Ciò, senza considerare che in determinate giurisdizioni (prima tra tutte la Francia) criteri ancor più specifici sono dettati dalla normativa specialistica sulle asserzioni ambientali; si tratta di veri e propri codici di settore sui green claim che impongono un forte limite alle asserzioni generiche di sostenibilità, nonché alle altre asserzioni vaghe e non specifiche, vietando – in alcuni casi – l’utilizzo di determinati termini (come “biodegradabile”).
Sulla scorta di questo quadro normativo, le Autorità nazionali Garante della Concorrenza e del Mercato (in Italia, l’AGCM), nonché le rispettive Autorità di Autodisciplina Pubblicitaria (in Italia, lo IAP) giocano un ruolo fondamentale nella tutela del consumatore da pratiche ingannevoli in ambito green.
E il panorama europeo è destinato a innovarsi (e, forse, uniformarsi) ulteriormente in seguito alla futura entrata in vigore della direttiva “Green Deal” volta a rafforzare il ruolo dei consumatori nella transizione verde e scongiurare il rischio di greenwashing (la cui emanazione era prevista per il secondo trimestre del 2021).
Nell’attesa, davanti al prossimo claim ambientale non resta che chiedersi: è green o è greenwashing?
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