Anno nuovo, ma ancora, sempre, Digital Services Act
Sì, perché la strada per la definizione della futura legislazione digitale europea è ancora lunga, sebbene la neo-presidenza francese al Consiglio dell’UE abbia da poco annunciato di voler trovare l’accordo sul testo entro giugno, ora che si avvicina la data della prima riunione dei triloghi – lunedì 31 gennaio.
Durante questi incontri di trattativa, infatti, Parlamento Europeo e Consiglio dell’UE, con la mediazione della Commissione, dovranno raggiungere quanto prima un’intesa sul dossier che da oltre un anno si trova sui tavoli di Bruxelles e che nei mesi precedenti è stato scrupolosamente scrutinato, modificato e infine approvato nelle due posizioni con cui ora gli organi legislativi europei si presentano al negoziato.
Guardando ai contenuti dei due testi, non si può di certo negare che le aspettative di tanti rappresentanti del mondo della proprietà intellettuale – ma non solo – siano state parecchio deluse.
Ancora una volta, il tentativo di regolamentare la responsabilità delle piattaforme digitali si è disperso in un mare magnum di emendamenti che alla fine ha lasciato ben poche briciole di consolazione a chi da tempo lotta per vedere riconosciuti maggiori obblighi in capo ai soggetti che potrebbero fare molto di più di quanto non stiano facendo per contrastare il traffico di prodotti e contenuti illeciti online.
Non è di certo tutto nero, ma avere un protocollo Know Your Business Customer (KYBC) limitato ai soli marketplace di una certa dimensione – e non esteso invece all’ampio ventaglio di attori che su Internet facilitano, in un modo o nell’altro, l’accesso e la fruizione di contenuti illegali – è un esempio del timido approccio che sia Parlamento che Consiglio hanno mostrato nella definizione delle loro posizioni.
E se nel Consiglio dell’UE si può contare sulla maggior sensibilità di certi Stati Membri alle tematiche della protezione dei consumatori e della veridicità delle informazioni che venditori o altri fruitori di servizi digitali forniscono alle piattaforme, (si veda il caso dell’Italia, ma anche di Spagna, Portogallo, Olanda, Austria e Danimarca), nella compagine parlamentare le pressioni delle lobby dei giganti di Internet, soprattutto su gruppi liberali e popolari, si sono fatte sentire, con il risultato di un testo dove sono di fatto assenti significativi doveri di due diligence – gli stessi, peraltro, che ogni consumatore si aspetta nel mondo “fisico”, e malgrado il richiamo della Commissione a che “ciò che è illecito offline lo sia anche online” -, non c’è alcun richiamo a meccanismi di “stay-down” che impediscano a contenuti identici a quelli già segnalati e accertati come illegali di riapparire sul web né la possibilità per i titolari di diritti (individui o imprese) di rientrare tra le categorie di segnalatori affidabili nonostante siano, per definizione, gli unici soggetti in grado di accertare la natura legale o meno di un prodotto.
La strada, si diceva, è ancora lunga, ma le premesse, purtroppo, non sono incoraggianti.
Tuttavia, ora come non mai diventa importante rimanere compatti, come comunità a tutela non solo degli interessi dei titolari di diritti IP, ma anche della sicurezza dei consumatori, per far presente alle delegazioni protagoniste dei triloghi la necessità di rivedere l’impianto proposto, che allo stato attuale non risulta essere né efficiente né rispondente alla finalità di salvaguardare i cittadini e le imprese europee.
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