DSA: COSA STA SUCCEDENDO?
di
di Mariachiara Anselmino
Sembra che la data dell’8 novembre – data ormai quasi simbolo, diciamolo, tra chi sta seguendo con attenzione le discussioni che stanno avendo luogo in Consiglio UE e Parlamento Europeo sulla proposta “Digital Services Act” per una nuova regolamentazione del mercato digitale – del voto del Comitato per il Mercato Interno e la Protezione del Consumatore (IMCO) sugli emendamenti di compromesso sia venuta mena e la decisione sul dossier rimandata.
L’aria che tira nelle aule dei decisori europei non è certo delle più distese: proprio ieri IMCO ha tenuto una riunione in cui sono state ammesse le difficoltà del trovare un terreno comune tra le parti – per usare le parole della Rapporteur Christel Schaldemose (S&D, Danimarca), “finding compromises takes time -, mentre i gruppi EPP e RE hanno espresso il loro disappunto per la lentezza delle negoziazioni, continuamente interrotte dai tentativi di riscrittura del testo da parte dei MEP.
Due momenti interessanti sono stati il richiamo di Schaldemose all’audizione dell’ex impiegata di Facebook (ora whistleblower) Francis Haugen davanti a IMCO dello scorso 27 ottobre e la dichiarazione della Shadow Rapporteur Arba Kokalari (EPP, Svezia) contro il riconoscimento di una responsabilità in capo ai marketplace, soprattutto considerando le possibilità limitate delle entità più piccole. La spinta per un’esenzione di responsabilità per PMI e start up è una leva che stanno utilizzando soprattutto alcuni partiti in Europa e vale quindi la pena, ora più di prima, far passare il messaggio che la stragrande maggioranza dei 23 milioni di PMI dell’UE consiste in negozi fisici e piccole o micro imprese, di cui solo circa 10 mila sono piattaforme digitali, il che significa un rapporto di 2.300:1 tra PMI fisiche e online. Ci si chiede quindi quale sia la ratio dietro all’imposizione di regole più severe per un grande gruppo di PMI, costituito da negozi fisici e piccole o micro imprese, rispetto alle piattaforme digitali, considerando che la stessa Commissione UE ha ammesso a più riprese che ciò che si applica offline dovrebbe applicarsi anche online.
Cosa sta invece accadendo in Consiglio UE? Come noto, la presidenza di turno, fino alla fine del 2021, è della Slovenia, ad oggi un Paese più vicino alle posizioni delle piattaforme rispetto alle istanze che provengono dai titolari di diritti, che nella speranza dei lobbisti delle prime potrebbe arrivare ad approvare la posizione comune degli Stati Membri a fine novembre. Di contro, la presidenza francese prevista dall’inizio del 2022 potrebbe portare all’inserimento nel dossier di importanti elementi per i rightholders, primo fra tutti quello di un esteso “KYBC”. Per quanto riguarda gli altri Paesi, è innegabile che il blocco Nord Europa (ivi comprese Germania, Austria, Polonia e Olanda) esprima da tempo una posizione nettamente a favore di una conferma dei principi previsti dalla vecchia Direttiva E-Commerce, mentre Spagna e Portogallo sembrano essere ancora silenti sul tema.
E l’Italia? Un buon segnale è sicuramente stata la dichiarazione del Presidente del Consiglio Mario Draghi di sostegno del nostro Paese al Regolamento UE sui servizi digitali, al fine di proteggere efficacemente prodotti e contenuti realizzati in Italia, perché “quello che è illecito offline lo sia anche online”. Tuttavia, nei fatti, da un lato una presa di posizione ferma sul tema sembra ancora distante dall’agenda di Governo, e dall’altro, ciò che si evince dai contatti con il Ministero di competenza, sembra che manchi l’intenzione di imporre maggiori obblighi in capo alle piattaforme e in generale una considerazione circa l’opportunità unica rappresentata dal DSA per garantire un ambiente digitale più equo per le imprese che vi operano e più trasparente per i consumatori che ne fruiscono.
La strada è ancora lunga e INDICAM sicuramente non si ferma, anzi, facendo fronte comune anche con le altre associazioni di categoria, non solo del mondo proprietà industriale ma anche del copyright, abbiamo chiesto a gran voce che il DSA diventi tema di discussione anche all’interno del CNALCIS e abbiamo preso contatti con i MEP delle Commissioni competenti in Parlamento e con la Rappresentanza Permanente Italiana in Consiglio, portando all’attenzione soprattutto i 4 punti che la comunità di titolari di diritti IP non trova all’interno del draft né tra le intenzioni di chi ora lo discute, ovvero:
- L’ampliamento del campo di applicazione del DSA anche ai fornitori di servizi diversi dalla attuale formulazione del fornitore di servizi di caching e di hosting includendo anche i fornitori di servizi che concorrono alla contraffazione.
- Il riconoscimento di doveri di rimozione definitiva di contenuti già accertati come illegali, anche tramite sospensione e/o blocco del seller e l’eliminazione permanente dalla piattaforma dei soggetti recidivi.
- L’estensione del Know Your Business Customer protocol a tutti gli intermediari della rete (e non solo quindi ai marketplace): qualsiasi fornitore di servizi a un cliente, che ricava del profitto per quei servizi da quel cliente, dovrebbe sapere chi sono i soggetti con cui tratta e come poterli contattare. Le informazioni sul commerciante possono essere fondamentali nel perseguire azioni legali e per le analisi di rischio delle forze dell’ordine impegnate nel contrasto.
- il riconoscimento ai titolari di diritto dello status di c.d. “trusted flagger”: le associazioni industriali che rappresentano gli interessi dei loro membri dovrebbero richiedere lo status di flaggers di fiducia, senza pregiudicare il diritto dei privati di stipulare accordi bilaterali con le piattaforme, anche per ridurre l’inutile dispendio di risorse di tutte le parti. I rightholders, lo sappiamo, sono gli unici in grado di autenticare rapidamente e sicuramente un prodotto.
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